La prima volta è successo nel 2002», racconta Alessandro Gassman. «Ero a letto, un libro in mano, all'improvviso l'ansia che sale, un sudore freddo, il cuore che batte forte, più forte, sempre più forte... Un attacco di panico. Paura che accada di nuovo. E accade. Anni di lotta, durissima lotta».
«Nel 2003 sono entrato in cura: psicanalisi. Non mi vergogno. Ho seguito la terapia junghiana e poi sono passato all'analisi transazionale, un'evoluzione delle teorie di Freud. Vedo il mio terapeuta una volta alla settimana, è in contatto con il neurologo che mi ha prescritto un trattamento, un nuovo ritrovato che incrementa la serotonina, al contrario degli ansiolitici non mi abbatte. Una pasticca la mattina di questo serotoninergico, punto. Sto proprio bene, era da tanto che non stavo così bene. Dal punto di vista analitico, il mio problema è stato definito disturbo d'ansia generalizzato.
Dal punto di vista neurologico, ho sofferto di carenza di serotonina, quella che chiamano la molecola della felicità. A un certo punto, ho dovuto farmi aiutare perché il disagio si era evoluto, era diventato troppo grande: attacchi di panico. Spiegarli non è facile. Ecco, è la stessa sensazione che provereste se entrasse nella stanza un animale feroce, all'improvviso. Vuole attaccarvi e voi non potete combatterlo.
E allora monta la paura, il cuore esplode fuori dal petto, vi sembra di morire.
Se ho deciso di raccontare la mia lotta con questo strano male, è perché spero che serva a qualcuno. Chi ne soffre pensa: "Oddio, sono matto". La gente crede sia una malattia secondaria, magari un frutto dell'immaginazione. Invece no, ti sconvolge la vita. Quando hai avuto un attacco di panico, stai nel terrore che da un momento all'altro si ripeterà. Io non comunicavo più, ascoltavo solo me stesso, intrappolato nell'incubo che quella bestia crudele tornasse mentre lavoravo, mentre guidavo, mentre ero con mio figlio. Sbagliavo. Nei casi come il mio, è importante parlare. E avere fiducia. Gli attacchi di panico, ho letto le statistiche, sono in aumento in tutto il mondo occidentale. Sarà il sovraccarico di lavoro, di stress, di responsabilità. Ma io vi assicuro: è una cosa da cui si guarisce.
La prima volta mi è successo l'estate del 2002, a Torino. Sono a letto, la sera, un libro in mano. Comincio a pensare alla giornata pesante che mi aspetta, devo girare Le stagioni del cuore, la fiction che poi si è vista su Canale 5. Un po' d'ansia, smetto di leggere. Niente. L'angoscia continua, accelera, mi si affastellano gli impegni da lì ai tre anni successivi. E non sono in grado di affrontarli, così, tutti insieme. Devo fare una scena importante la settimana dopo e non la so a memoria, chissà se prenderanno me per l'altro film, ho promesso al mio piccolo Leo che lo porterò al mare... Mio Dio, mio Dio... Ho i battiti a mille, grondo sudore freddo, muoio. Mia moglie si catapulta accanto a me, è spaventata. Sono i venti minuti peggiori della mia esistenza. Quando il medico arriva, scopro che non è un infarto. Mando giù la pillola di ansiolitico che mi prescrive e sto subito meglio. Dura poco.
Da quel momento trascorro le ore a rimuginare: "Se mi ricapita?". E infatti accade di nuovo. Sono in un ristorante affollato, dentro il torace avverto le palpitazioni in crescita. È un altro attacco di panico. Mi alzo con la scusa di una telefonata, esco e non rientro più. Ma dopo una settimana ci risiamo, mentre sono seduto al cinema. Basta, non c'è tempo da perdere, è il momento di intervenire. Mi sdraio sul lettino di uno psicanalista e contemporaneamente prendo gli ansiolitici. Dosi minime, che pian piano elimino. Gli psicologi mi hanno detto che l'analisi, da sola, non poteva essere risolutiva. Così come i farmaci, senza capire le ragioni dell'ansia, sarebbero serviti a poco.
Da quando trovo le risposte, mi sento meglio. I miei attacchi di panico, per esempio, avevano una spiegazione. Le tre circostanze in cui si sono manifestati, in apparenza così diverse, erano accomunate da una cosa: mi sentivo in gabbia e non riuscivo a uscirne. A letto era il pensiero di avere davanti una giornata di riprese faticose, sotto un sole ossessionante, e di non potere rinunciare. Al ristorante e al cinema era la presenza di due persone con cui non avevo piacere di trovarmi, che parlavano e parlavano... E io non ero capace di dire la mia, di oppormi. Poi, e non è un caso, era appena morto mio padre. Mi dava sicurezza, anche se negli ultimi anni ero io la spalla su cui si appoggiava. Lui non c'era più. E io ero da solo, obbligato a crescere.
Con l'analisi, mi è toccato confrontarmi con la sua figura gigantesca. Mio padre era molto esigente. Non lo faceva apposta. Anche sua madre era stata una donna presente, con un carattere invasivo: lo aveva obbligato a diventare attore. Lui era talmente dotato che non si rendeva conto quanto agli altri riuscisse difficile ottenere i suoi risultati. Leggeva un copione e in dieci minuti lo sapeva a memoria, aveva una biblioteca in testa, era stato un campione negli sport. Per lui era tutto facile. Diceva: "Che ci vuole, dai, vai!". Vi immaginate che significava per mio padre, dieci a scuola in tutte le materie, avere un figlio che non primeggiava? Bocciato due volte? E vi immaginate per me che ha voluto dire avere in casa uno come Vittorio Gassman? Ti vengono i complessi, hai voglia di dimostrare che anche tu sai fare. Vivi per apparire a lui e poi agli altri perfetto, invulnerabile, invincibile.
E come fai a non seguire le idee del grande Gassman, così brillanti, così giuste? Non puoi. Così, le cose che diceva sono diventate le mie leggi interiori, come se la sua voce mi ordinasse di fare questo o quello. Obbedivo al mio Io genitore, quella parte della personalità che secondo l'analisi transazionale rappresenta la percezione che abbiamo dei messaggi inviati da nostro padre o da nostra madre, e nascondevo la mia natura spontanea, il mio Io bambino. Mi obbligavo a essere quello che non ero.